mercoledì 10 novembre 2010
Le convergenze parallele
di Sergio Scavio
Dopo
i sordi elettroshock che hanno infestato le mura dell'ospedale psichiatrico di
Rizzeddu altri cortocircuiti emergono da quegli spazi quasi quarant'anni dopo.
Le foto dell' “anonimo francese” arrivano a soccorrere alcune lacune che
avevamo sul manicomio sassarese e a crearne di nuove. La storia di queste immagini
è sinistramente affascinante: un fotografo forse (immagino) ingiustamente
rinchiuso di cui sappiamo poco o nulla, una macchina fotografica, uno sguardo
orizzontale su persone e spazi sconosciuti.
Tutto a ben pensarci in questa mostra è senza identità,
senza nome, anonimo.
Ma paradossalmente, nelle foto anonime, anonime nel dito
che scatta, nell'occhio che seziona lo spazio e nel soggetto che viene
inquadrato si scopre una nuova identità, una nuova soggettività. Eppure tutto
in queste foto è oggetto: sono oggetti gli spazi geometrici e modulari, gli
ospiti in fila per farmaci o cibo poco importa, i corpi sedati abbattuti lungo
il perimetro dello stabile, nelle panche, sopra i tavoli. Sono oggetti due
volte: nello spazio fotografico in cui si disegnano uomini ed arredi e nel
referente della foto. Non sono forse meri elementi biologici, per l'istituzione
manicomiale, i corpi sconvolti da sedativi e dalla serialità delle abitudini?
L'accesso alla biologia degli internati fa il paio con l'accesso all'intimità
degli stessi: sono state volutamente tralasciate dalla selezione alcune foto
che descrivevano momenti di profonda spudoratezza, di sadismo dello sguardo, di
violenta privazione del sé. Ma è incredibilmente nella totale adesione tra il
documento fotografico e l'oggetto fotografato che si crea una nuova soggettività,
una rinascita del pudore, una battaglia contro l'abiezione e l'internamento. In
quasi tutte le foto, le più drammatiche, il punctum barthesiano, il centro
ideale ed ipnotico dell'immagine sono gli occhi, è lo sguardo fisso
sull'obbiettivo, ribelle al farmaco e all'umiliazione. E' una processione di
sguardi in macchina, a volte torvi, a volte umidi, spesso alla ricerca di
complicità: sempre e comunque ribelli all'abbattimento chimico e morale.
Attraverso i continui sguardi in macchina si manifesta la sovversione
dell'oggetto che si proclama soggetto ed è attraverso il mezzo
meccanico/chimico della fotografia che paradossalmente arriva il riscatto
umano.Come scrive Marco Belpoliti per le foto di Yamahata scattate all'alba
dell'atomica di Nagasaki, nel vedere le foto dell'anonimo francese si prova “pietà,
ma anche il piacere della composizione, ovvero l'inscindibile coppia di etica
ed estetica”. Insomma, come tra ragione e follia, in queste foto ci sono molte
convergenze parallele, tra oggetto e soggetto, etica ed estetica, vergogna e
spudoratezza, convergenze che creano un documento storico ed estetico di
eccezionale importanza.
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