mercoledì 10 novembre 2010

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Alcuni interventi sulla mostra "Uno sguardo ritrovato"

Quando gli ho prestato la mia reflex
di Luigi Bua

Era il 1973, già da due anni il gruppo di studenti della Facoltà di Scienze Politiche frequentava l’ospedale psichiatrico di Rizzeddu come attività di ricerca del corso di sociologia di GianAntonio Gilli. Molto era cambiato dai primi tempi. Dopo un periodo in cui gli studenti e gli assistenti interloquivano essenzialmente con gli infermieri ed i capi reparto (i medici erano quasi irraggiungibili), si era creato un clima di rispetto e di fiducia che consentiva di incontrare più liberamente con degenti, che erano rassicurati da questo cambiamento. Eravamo così riusciti a mettere in piedi discussioni e anche assemblee di reparto a cui partecipavano degenti e personale insieme agli studenti e si discuteva dei problemi e delle “motivazioni” di certe regole, di una certa organizzazione, di certi comportamenti. Gradatamente, si aprirono delle possibilità e delle porte fino al momento in cui furono aperti alcuni reparti maschili: era consentito ai degenti di uscire nel giardino e nei campi che contornavano le otto palazzine  dell’ospedale.
A un certo punto comparve in reparto un nuovo degente, un signore abbastanza giovane, francese. Dopo qualche incontro, mi raccontò il suo ricovero: era alla Maddalena, era stato male e gli avevano fatto un ricovero coatto. Il suo malessere a suo dire aveva una ragione: era un fotografo e le sue macchine, delle Hasselblad, gli  erano state rubate. Ma avevano influito anche passate esperienze che lui non mise esplicitamente in relazione ma cui accennò di fila: la sua esperienza come fotografo in Indocina, durante la guerra in corso.
Dopo un po’ mi venne l’idea di portargli la mia reflex e di suggerirgli di fare foto: non so ancora se volevo mettere alla prova il suo racconto e avere conferma che i “matti” potevano essere attendibili, o se mi aspettavo uno sguardo dal di dentro. Non ci fu alcuna obiezione da parte dello staff del reparto.
Quando ebbe scattato le foto pensai che fosse utile chiedere il suo aiuto per la stampa e chiesi che poteva venire a casa mia dove avevo le solite attrezzature da dilettante nel solito bagno oscurato. Già solo nel sviluppare i negativi mostrò la sua capacità professionale e poi passò alla stampa. Qua un problema: giovane ricercatore squattrinato compravo carta fotografica in fogli grandi per poi tagliarla, ma senza taglierina, con un coltellaccio che misi nelle sue mani: era anche questa una prova? 
Le sue mani sotto la luce dell’ingranditore erano uno spettacolo, mascherava le luci con una capacità incredibile e non ho mai avuto foto sviluppate e stampate così bene.
Che ne è stato di lui? Non so. Dopo qualche mese arrivò a prenderlo un familiare dalla Francia, lui mi scrisse dall’ ospedale in cui era di nuovo diventato degente, e dopo non ebbi più alcuna lettera.
Ora ho il rimpianto di non aver avuto la maturità e la sensibilità di cercarlo, di mantenere aperto un canale di comunicazione.

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