sabato 27 novembre 2010

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Sostegno alle proteste nell'ateneo sassarese

INCONTRO PUBBLICO SU UNIVERSITA' E RIFORMA


Alla luce della discussione in Parlamento del DdL Gelmini sull’Università e delle numerose e partecipate azioni di protesta inscenate negli atenei italiani ed in particolare in quello sassarese, Turritana 52 solidarizza con la protesta e intende provare a ragionare sui temi in questione.
E’ importante ribadire che, come tanti in Italia, vogliamo una Università statale pubblica e forte , che non venga mortificata da tagli finanziari e di personale ma che anzi venga sostenuta da nuovi fondi ed incentivi, che non si regga sul “volontariato riluttante” di centinaia di docenti precari, ricercatori e dottorandi ma che crei delle prospettive certe di vita e ricerca a chi si spende nel mondo universitario. In molti sappiamo che, in periodi di crisi come questo, uno dei pochi modi di riscatto è investire in ricerca e intelligenza: in molti lo sappiamo, dobbiamo sforzarci di farlo capire anche al Governo Berlusconi. In risposta al ministro Tremonti, che afferma brutalmente “ la cultura non si mangia”, noi rispondiamo che tante persone con la cultura ci mangiano ma anche pensano, si emancipano e diventano persone critiche e consapevoli.
Come associazione proveremo a discutere sulla protesta universitaria e sul DdL 190 in una iniziativa prevista nella nostra sede in via Turritana 52 mercoledì 1 dicembre alle ore 18:30 con ricercatori, docenti a contratto, studenti e cittadini.

mercoledì 24 novembre 2010

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Libertà è partecipazione


"Libertà è partecipazione" diceva Giorgio Gaber. Se siete d'accordo e volete essere cittadini più liberi, c'è un modo per farlo nella nostra città. Libera.Mente insieme all'associazione Turritana 52 organizzano un percorso fatto di seminari ed iniziative pubbliche per approfondire cosa s'intende per partecipazione, come portarla all'interno della politica per cambiarla, come coinvolgere i cittadini per realizzare politiche più efficaci. 
Cercheremo di farci un'idea e di proporla alla città, per generare un vero cambiamento che parta dal basso, da tutti noi. La prima occasione per vederci sarà lunedì 29 novembre dalle 19.00 alle 22.00 in via Florinas 4, presso la sede d Liberamente. In un seminario cercheremo di capire cosa per noi può significare partecipazione confrontandoci, ascoltando esperti che ci parleranno di casi esemplari, iniziando a costruirci un'idea attorno a questo tema cruciale. 
Vi aspettiamo.

mercoledì 10 novembre 2010

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Prosegue sino al 14 novembre la mostra fotografica "Uno sguardo ritrovato"

In queste due settimane è stato per noi un piacere ricevere tanti visitatori, poter parlare con voi, raccogliere le vostre impressioni e riflessioni.
Sono venuti, a ieri, più di 1.200 visitatori: abbiamo perciò deciso di prolungare l'apertura sino a domenica 14 novembre per dare modo, a chi non lo avesse già fatto, di vedere le foto dal vivo e volendo, discuterne con noi. Gli orari di apertura rimarranno invariati, dalle 17.30 alle 21.00.
L'associazione Turritana52 ringrazia.
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Alcuni interventi sulla mostra "Uno sguardo ritrovato"

Quando gli ho prestato la mia reflex
di Luigi Bua

Era il 1973, già da due anni il gruppo di studenti della Facoltà di Scienze Politiche frequentava l’ospedale psichiatrico di Rizzeddu come attività di ricerca del corso di sociologia di GianAntonio Gilli. Molto era cambiato dai primi tempi. Dopo un periodo in cui gli studenti e gli assistenti interloquivano essenzialmente con gli infermieri ed i capi reparto (i medici erano quasi irraggiungibili), si era creato un clima di rispetto e di fiducia che consentiva di incontrare più liberamente con degenti, che erano rassicurati da questo cambiamento. Eravamo così riusciti a mettere in piedi discussioni e anche assemblee di reparto a cui partecipavano degenti e personale insieme agli studenti e si discuteva dei problemi e delle “motivazioni” di certe regole, di una certa organizzazione, di certi comportamenti. Gradatamente, si aprirono delle possibilità e delle porte fino al momento in cui furono aperti alcuni reparti maschili: era consentito ai degenti di uscire nel giardino e nei campi che contornavano le otto palazzine  dell’ospedale.
A un certo punto comparve in reparto un nuovo degente, un signore abbastanza giovane, francese. Dopo qualche incontro, mi raccontò il suo ricovero: era alla Maddalena, era stato male e gli avevano fatto un ricovero coatto. Il suo malessere a suo dire aveva una ragione: era un fotografo e le sue macchine, delle Hasselblad, gli  erano state rubate. Ma avevano influito anche passate esperienze che lui non mise esplicitamente in relazione ma cui accennò di fila: la sua esperienza come fotografo in Indocina, durante la guerra in corso.
Dopo un po’ mi venne l’idea di portargli la mia reflex e di suggerirgli di fare foto: non so ancora se volevo mettere alla prova il suo racconto e avere conferma che i “matti” potevano essere attendibili, o se mi aspettavo uno sguardo dal di dentro. Non ci fu alcuna obiezione da parte dello staff del reparto.
Quando ebbe scattato le foto pensai che fosse utile chiedere il suo aiuto per la stampa e chiesi che poteva venire a casa mia dove avevo le solite attrezzature da dilettante nel solito bagno oscurato. Già solo nel sviluppare i negativi mostrò la sua capacità professionale e poi passò alla stampa. Qua un problema: giovane ricercatore squattrinato compravo carta fotografica in fogli grandi per poi tagliarla, ma senza taglierina, con un coltellaccio che misi nelle sue mani: era anche questa una prova? 
Le sue mani sotto la luce dell’ingranditore erano uno spettacolo, mascherava le luci con una capacità incredibile e non ho mai avuto foto sviluppate e stampate così bene.
Che ne è stato di lui? Non so. Dopo qualche mese arrivò a prenderlo un familiare dalla Francia, lui mi scrisse dall’ ospedale in cui era di nuovo diventato degente, e dopo non ebbi più alcuna lettera.
Ora ho il rimpianto di non aver avuto la maturità e la sensibilità di cercarlo, di mantenere aperto un canale di comunicazione.
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Le convergenze parallele

Le convergenze parallele
di Sergio Scavio

Dopo i sordi elettroshock che hanno infestato le mura dell'ospedale psichiatrico di Rizzeddu altri cortocircuiti emergono da quegli spazi quasi quarant'anni dopo. Le foto dell' “anonimo francese” arrivano a soccorrere alcune lacune che avevamo sul manicomio sassarese e a crearne di nuove. La storia di queste immagini è sinistramente affascinante: un fotografo forse (immagino) ingiustamente rinchiuso di cui sappiamo poco o nulla, una macchina fotografica, uno sguardo orizzontale su persone e spazi sconosciuti.  
Tutto a ben pensarci in questa mostra è senza identità, senza nome, anonimo. 
Ma paradossalmente, nelle foto anonime, anonime nel dito che scatta, nell'occhio che seziona lo spazio e nel soggetto che viene inquadrato si scopre una nuova identità, una nuova soggettività. Eppure tutto in queste foto è oggetto: sono oggetti gli spazi geometrici e modulari, gli ospiti in fila per farmaci o cibo poco importa, i corpi sedati abbattuti lungo il perimetro dello stabile, nelle panche, sopra i tavoli. Sono oggetti due volte: nello spazio fotografico in cui si disegnano uomini ed arredi e nel referente della foto. Non sono forse meri elementi biologici, per l'istituzione manicomiale, i corpi sconvolti da sedativi e dalla serialità delle abitudini? L'accesso alla biologia degli internati fa il paio con l'accesso all'intimità degli stessi: sono state volutamente tralasciate dalla selezione alcune foto che descrivevano momenti di profonda spudoratezza, di sadismo dello sguardo, di violenta privazione del sé. Ma è incredibilmente nella totale adesione tra il documento fotografico e l'oggetto fotografato che si crea una nuova soggettività, una rinascita del pudore, una battaglia contro l'abiezione e l'internamento. In quasi tutte le foto, le più drammatiche, il punctum barthesiano, il centro ideale ed ipnotico dell'immagine sono gli occhi, è lo sguardo fisso sull'obbiettivo, ribelle al farmaco e all'umiliazione. E' una processione di sguardi in macchina, a volte torvi, a volte umidi, spesso alla ricerca di complicità: sempre e comunque ribelli all'abbattimento chimico e morale. Attraverso i continui sguardi in macchina si manifesta la sovversione dell'oggetto che si proclama soggetto ed è attraverso il mezzo meccanico/chimico della fotografia che paradossalmente arriva il riscatto umano.Come scrive Marco Belpoliti per le foto di Yamahata scattate all'alba dell'atomica di Nagasaki, nel vedere le foto dell'anonimo francese si prova “pietà, ma anche il piacere della composizione, ovvero l'inscindibile coppia di etica ed estetica”. Insomma, come tra ragione e follia, in queste foto ci sono molte convergenze parallele, tra oggetto e soggetto, etica ed estetica, vergogna e spudoratezza, convergenze che creano un documento storico ed estetico di eccezionale importanza.
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Esercizi di cittadinanza

Esercizi di cittadinanza
di Daniele Pulino

Alla scatola delle foto che Gigi Bua conservava da quarant’anni ci siamo arrivati quando ormai era a buon punto la ricerca sulla stampa quotidiana e, come in ogni buon lavoro di inchiesta, era pronta la lista dei testimoni, di ieri e di oggi, che volevamo intervistare. L’idea dell’inchiesta non era nata subito quando, con alcune insegnanti dell'Istituto Tecnico per le Attività Sociali, avevamo pensato di costruire a Sassari un “Laboratorio di cittadinanza” secondo il progetto che la Fondazione Franca e Franco Basaglia ha promosso da alcuni anni e sta svolgendo in diverse città. L’idea base è quella di far lavorare insieme studenti delle medie superiori e utenti dei servizi di salute mentale alla realizzazione di prodotti che con mezzi diversi – scritti, video, testi web, foto, canzoni ecc – affrontino la tematica dei diritti e della salute mentale. Alle spalle c’è la convinzione che la democrazia abbia bisogno di esercizi di convivenza oltre che di regole e procedure condivise: di qui lo slogan, “Incontri ravvicinati”, che è anche il titolo delle manifestazioni che presentano i risultati dei vari Laboratori (a Roma, il prossimo 9 novembre, si terrà nell’Aula Magna della Sapienza l’incontro nazionale dei Laboratori 2010 ). A Sassari c’era la possibilità di lavorare con un laboratorio di cinema, all’inizio abbiamo pensato a una fiction che partisse da una delle storie scoperte durante la visita all’archivio di Rizzeddu ma poi è prevalsa la voglia di sapere come stanno le cose oggi, e cosa c’era prima. Così, attraverso la ricerca di un gruppo di studentesse curiose, le immagini di questo fotografo francese sono uscite dall’ombra dopo quarant’anni, e oggi spiegano il manicomio a chi non lo ha mai visto e a chi lo ha dimenticato.
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Ritrovare quello sguardo

Ritrovare quello sguardo
di Maria Grazia Giannichedda


Nei primi anni ’70, l’ospedale psichiatrico di Sassari, come molti manicomi italiani dell’epoca, era un posto terribile ma pieno di idee nuove, di esperienze generose, di speranze e prospettive. Dopo il durissimo sciopero degli infermieri nell’inverno del ’72, con i titoli dell’Espresso “Sassari, la fossa dei serpenti” e la visita di Franco Basaglia, la Provincia di Sassari aveva avviato una sorta di gemellaggio con quella di Trieste, dove lavorava Basaglia e dove erano andati per periodi di formazione gruppi di medici e infermieri. Le innovazioni cominciarono così a essere incoraggiate e nonostante opposizioni, resistenze e paure che venivano soprattutto dall’alto, in breve tempo cambiarono molte cose e il muro che divideva il manicomio dalla città anche a Sassari cominciò a incrinarsi. Alle feste, alle mostre, ai concerti che si facevano a Rizzeddu partecipavano tante persone, ai convegni sulle alternative al manicomio non c’erano solo operatori, i medici dirigenti e gli amministratori dicevano di sostenere il cambiamento.  
Cercavamo, con gli studenti del Laboratorio di cittadinanza, testimoni e documenti di quegli anni. Quando è riemerso lo sguardo del fotografo francese senza nome, le sue foto e la loro storia hanno affascinato tutti ma ci hanno anche consegnato due compiti non da poco. Uno, forse il più facile, è quello di ritrovare il nome di questo fotografo, la sua storia e lui stesso. L’altro è quello di ritrovare quello sguardo che una parte della società, certo minoritaria ma tutt’altro che irrilevante, ha indirizzato per molti anni verso il manicomio e i suoi sintomi, stimolata da operatori che volevano cambiare. Oggi rischiamo di non saper più riconoscere quei sintomi, o forse guardiamo altrove per disperazione o convenienza.